Poetica e poesia nel Settecento italiano (1962)

Poetica e poesia nel Settecento italiano, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 66°, s. VII, n. 2, Firenze, maggio-agosto 1962; è il testo, leggermente modificato, della relazione letta al V Congresso dell’Associazione di lingua e letteratura italiana (Magonza-Colonia, 27 aprile-1 maggio 1962, poi in «Atti dell’Associazione per gli studi di lingua e letteratura italiana», Wiesbaden, Steiner Verlag, 1965, e in W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio cit.

POETICA E POESIA NEL SETTECENTO ITALIANO[1]

Nel ripensamento dello sviluppo della critica e dalla storiografia letteraria applicata al Settecento italiano dal Croce in poi, mi pare che attualmente due istanze si presentino con particolare forza proprio di fronte alla interpretazione e delineazione che il Croce ha offerto della letteratura settecentesca, tenendo ben conto di quanto quell’interpretazione è stata arricchita e approfondita dagli studi del Fubini. L’istanza di una piú chiara decisione circa le possibilità e realtà poetiche del Settecento italiano e l’istanza di una storicizzazione intera, profonda, scandita del secolo e delle sue varie fasi: storicizzazione da attuare, per parte mia, sulla base di uno studio della poetica come momento di commutazione in tensione e direzione artistica e poetica di problemi letterari e di problemi e condizioni storiche, culturali, spirituali, sociali, e come essenziale avvio e sostegno alla comprensione storico-critica della poesia.

Studio di poetica e di poesia, e di poetica per la poesia, e non solo di poetica, perché, puntando sulla presenza di questo solo termine nel Settecento italiano (sia pure sino ad Alfieri escluso), si potrebbe anche ritornare, per altra via da quella crociana, all’effettivo riconoscimento di una assenza della poesia in una storia di aspirazioni e tensioni alla poesia, interessanti e importanti, ma prive di corrispettivo poetico. Magari risolvendo, come da qualche parte si potrebbe tentare di fare, la vera poesia del Settecento italiano nella realtà meno discussa della sua musica, della sua pittura, della sua scenografia: le Quattro stagioni di Vivaldi come un’Arcadia superiore all’Arcadia letteraria, le opere «buffe» e «serie» di Pergolesi, Cimarosa, Paisiello, come i veri drammi settecenteschi, la pittura di Tiepolo come il vero trionfo del grandioso e dell’idillico, quella di Longhi e Guardi come la vera poesia del quotidiano, della realtà, del paesaggio, le stampe di Piranesi come la vera poesia preromantica e neoclassica delle rovine e della tomba morale-eroica, e magari certe soluzioni urbanistiche e architettoniche romane (Trinità dei Monti e Piazza Sant’Ignazio) come le vere creazioni della fantasia settecentesca.

Mentre poi, insistendo su di un carattere, pur a suo modo vero, del Settecento italiano, si potrebbe solo battere sul suo valore preparatorio rispetto alla grande epoca di primo Ottocento, facendo della poetica settecentesca e delle sue parziali realizzazioni soprattutto un’enorme riserva di immagini abbozzate, di cadenze incompiute, o, al massimo, di forme e moduli di linguaggio e di tecnica in attesa della scintilla creatrice portata da Alfieri e poi da Foscolo e da Leopardi.

Certo, con una parziale verità e utilità (si pensi alla speciale valorizzazione in tal senso anche di lirici minori e minimi nell’introduzione del Fubini all’antologia ricciardiana di Lirici del Settecento), per indicare comunque, in una storia di lunga prospettiva, come con il Settecento cominci la nostra storia letteraria moderna e come esso comunque si inserisca in questa, almeno con la sua lezione di chiarezza e di lucidità stilistica e razionale cosí fortemente attiva (diversamente dal barocco poetico) nei confronti di un’epoca di grande e profonda poesia, ma mai priva di limpidezza e di ardua e precisa sicurezza tecnica e stilistica.

Ma in realtà il Settecento italiano non fu solo un secolo di poetica, e se esso fu indubbiamente ricco di tensioni e aspirazioni che trovarono, a vario livello e soprattutto nelle sue fasi terminali, la loro resa poetica piú alta nella zona classico-romantica, ebbe anche una sua vita poetica interna, trovò, a vario livello, espressioni poetiche minori e pur non «cestinabili» (anche fra gli spregiati lirici arcadici si pensi almeno alla gentile e fervida animazione poetica di un Manfredi) ed espressioni poetiche intere, specie se si mantenga, pur con la sua potenza di apertura di una nuova epoca, l’Alfieri nelle sue origini e nei suoi legami settecenteschi.

E chi potrebbe ormai, seguendo le indicazioni del Croce, escludere dalla «poesia» e mantenere in un ambito solo di «letteratura» il Goldoni e il Parini? Mentre siamo in parecchi, se non in molti, a pensare che anche al Metastasio non si possa negare, pur nelle sue limitazioni storiche e personali, il nome e la qualità del poeta che gli furono confermate, pur con un dubbio ad altissimo livello, dal rigoroso Leopardi in un periodo in cui egli veniva smontando la fama poetica del Monti e superava la maggiore benevolenza dei suoi primi giudizi sul Chiabrera e sul Testi.

Né occorrerà, si badi bene, ricercare e sperar di trovare accenti di poesia anche in poeti minori con operazioni antistoriche e sterili, come si tentò recentemente con il canzoniere del Martello per il figlio Osmino, ricaricandone la forza interna attraverso un’analogia con il Dolore di Ungaretti, o puntando sull’elemento eroico-virtuoso della Maratti Zappi, ma proprio invece seguendo le linee genuine della tensione poetica piú storicamente accertabile e del suo corrispettivo di modi di vita e di cultura nelle varie fasi settecentesche, smussando il divario, tipico della delineazione crociana, fra la serietà critica, pratica, tecnica del Settecento e una sua supposta aridità poetica e rifiutando le «totalizzazioni» generiche e confusionarie.

Ché, in realtà, non di una poetica e di una poesia del Settecento si può convenientemente parlare, ma di poetiche e di forme di poesia entro un arco di sviluppo complesso e graduato che dall’Arcadia ci conduce alle soglie del classicismo romantico di primo Ottocento.

Vanno rifiutate energicamente, dico, sia le totalizzazioni a base di unità compositive con eterni ritorni di elementi diversi e magari contraddittori, unificati col giuoco assai facile della interna contraddittorietà delle epoche di trapasso (specie alla luce di unità «epocali» stilistiche sul tipo del rococò hatzfeldiano che adegua e livella la poetica e lo stile di un Marivaux, di un Voltaire, di un Rousseau, di uno Chénier), sia le totalizzazioni come quella, qui proposta pur cosí finemente dal Buck, di costanti tematiche e letterarie di eroismo e idillio pastorale, sia la stessa conglobazione di tutto il secolo, sino ad Alfieri escluso, nell’Arcadia, che è propria dell’interpretazione crociana. Per non dire di quella che mi è stata, penso distrattamente, attribuita di una continua mescolanza di elementi arcadici, illuministici, preromantici e neoclassici senza scansione e centri di forza successivi.

E occorrerà anche rifiutare certe preclusioni preventive (secolo razionalistico dunque impoetico) perché entro quelle nozioni, poi cosí varie, di poesia, lo storico può ritrovare modi di possibilità poetiche particolari non perdendo mai di vista l’esigenza storica di valutare internamente e concretamente le loro ragioni e le possibilità di poesia che vissero entro quelle nozioni di poesia.

Non nego con ciò che si possano cercare linee verticali nello sviluppo settecentesco anzitutto nel sostrato storico-culturale (la spina dorsale dell’illuminismo nelle sue piú graduate anticipazioni razionalistiche, nella sua maturità piena, nella sua crisi e nelle risoluzioni preromantica e neoclassica, con le loro direzioni non solo negative e reazionarie) sia nella Weltanschauung e nel modo di vita dominati da istanze morali e civili (la pubblica felicità, la socievolezza, il senso della civitas ecc.), sia di termini comuni a Weltanschauung, a estetica e letteratura (natura-ragione, utile-dulci, piacere-virtú) particolarmente piú percepibili nella zona lata che arriva al Parini, sia della forza dell’educazione umanistico-classica su cui si è sempre molto e giustamente insistito.

Ma queste stesse linee, per renderci conto della loro portata e della loro risoluzione in poetica e in poesia, vanno verificate nel loro effettivo variare, nella loro intensità e profondità, nel loro diverso significato e carattere.

E proprio una forte cesura di ripresa desanctisiana va ben fatta vivere (al livello nuovo di una valutazione nuova dell’Arcadia) tra Arcadia e illuminismo, evidenziata insieme da ragioni di fondo e da aspetti di poetica e di poesia. Perché mai un arcade avrebbe neppure immaginato una poesia come la Salubrità dell’aria né avrebbe svolto il tema del fuoco o della guerra, dettati dall’Accademia dei Trasformati, nel senso polemico-umanitario con cui li svolse il Parini nel 1758. Mai un arcade avrebbe tentato un linguaggio come quello delle prime odi del Parini, in cui entrano, attraverso la nuova coscienza civile e la nuova coscienza di poetica, gli elementi della nuova cultura e del nuovo impegno, la nuova figura del letterato, la nuova forza della moralità pariniana personale e storica, la nuova componente sensistica, la nuova funzione del classicismo nobilitante ed evidenziante, in una sintesi che rinnova e trasvaluta anche gli elementi di continuità e fa del Parini il poeta dell’illuminismo, come il Metastasio era stato il poeta dell’epoca arcadico-razionalistica e l’Alfieri sarà il poeta della crisi illuministica e della rivolta preromantica.

Cesura forte, ché poi tutto il secondo Settecento è piú fortemente collegato all’epoca nuova in cui si collocano, dopo l’apertura alfieriana, Foscolo, Leopardi e Manzoni; e cesura, d’altra parte, da rivedere come su di un livello piú alto per quel che riguarda l’epoca arcadico-razionalistica, con la sua ricchezza di stimoli preilluministici, con la sua densità e ricchezza di fermenti estetici e culturali, con le sue possibilità artistiche e poetiche entro i suoi limiti storici, cosí diverse dalla successiva squalifica polemica e dal puro adeguamento ad un’epoca morta e di pura decadenza o pendant, per difetto, di ciò che il barocco sarebbe stato per eccesso.

Si tratta di graduare e di storicizzare fortemente lo sviluppo settecentesco, senza ricadere in schemi romantici superati e accettando comunque dal Croce la fondamentale idea che la storia moderna italiana comincia con l’ultimo trentennio del Seicento, e cioè con l’apertura dell’epoca arcadico-razionalistica, pur non perdendo con ciò di vista il fatto che la nuova epoca si apre con il peso di inevitabili residui e in una zona meno attiva e decisamente rinnovatrice di quella illuministica, con forti remore conformistiche, con margini evidenti di evasione, di esercitazione retorico-accademica, di proliferazione improvvisatoria, con parziali elementi di cultura piú stanca e retorica che richiesero e motivarono poi la reazione antiarcadica di illuministi e preromantici.

Ma, come dirò, tutto ciò è pure margine inferiore e vistoso di centri vivi e va anche valutato in uno sviluppo, di solito poco considerato, della stessa Arcadia, fra consolidamento e decadenza nei suoi elementi piú futili e convenzionali.

D’altra parte, una ricostruzione di sviluppo delle epoche e delle poetiche settecentesche in una prospettiva storicistica integrale, e perciò appunto capace di nessi e di distinzioni e di salvaguardia del valore peculiare della poesia (lontana quindi da una semplice Stilgeschichte e da una semplice storia sociologica e contenutistica), presuppone tutto un lavoro approfondito ed esteso di ravvicinatissima indagine sulla storia, sulla cultura, sulla letteratura del Settecento che è ancora piú avviato che compiuto. Si pensi, già in un terreno preparatorio fra storia e letteratura: ricostruire la vita politica, sociale, culturale e letteraria dei singoli stati italiani (estendendo con piú forte attenzione a cultura e letteratura quanto recentemente si è fatto da parte di storici come Venturi, Valsecchi, Berengo, Quazza, Dal Pane, ecc.); ricostruire la vita completa di vari centri culturali cittadini (riprendendo a nuovo livello di esigenze nuove quanto era stato avviato su piano piú di colore e di notizia acritica dalla collana settecentesca del Di Giacomo); studiare gli epistolari in parte inediti, la vita di corrispondenza italiana ed europea (con la prospettiva venturiana di un’Italia parte attiva di Europa, né semplice dipendenza europea né chiusa ed autoctona individualità culturale) che aumenterà anche il rilievo della ricchezza di idee e di cultura filosofica di tanti eruditi settecenteschi (si pensi all’arricchimento portato dal Bertelli alla cultura muratoriana con il rapporto istituito col Leibniz), studiare e precisare la portata dei movimenti anche spirituali, ideologici, politici, religiosi e i loro riflessi in atteggiamenti culturali spesso ancora oscuri (come nel caso del Maffei) e non senza interferenza negli atteggiamenti letterari (e cosí precisare il punctum dolens della presenza gesuitica al di là dei facili schemi settembriniani valutando il discrimine fra un’organizzazione di cultura vera e propria, adesioni personali alle nuove idee, utilizzazione di queste in un’azione di ritardamento, di svuotamento, di assimilazione interessata).

Studiare meglio la ricca vita giornalistica come ha fatto recentemente il Berengo per il Veneto, studiare la diffusione illuministica in tutte le sue ricche pieghe e versioni tra ideologia e letteratura (si pensi al romanzo tipo Seriman, si pensi allo studio del Venturi sul Frisi con la sua componente rousseauiana e il suo sviluppo di tipo preromantico); studiare la librettistica sterminata e quasi inesplorata e ricca non solo di testi interessanti (la recente esecuzione fiorentina dell’Antigone del Traetta ripropone la valutazione del testo del Coltellini), ma di indicazioni per la evoluzione della poetica settecentesca (si pensi almeno all’Ascanio in Alba del Parini e alla sua trasformazione neoclassica dello schema e del linguaggio metastasiano), studiare la concreta vita teatrale ricca di elementi e attenzione tecnica anche in «letterati» (come gli studi del Varese han mostrato per il Maffei nel suo incontro col Riccoboni e la Balletti).

Studiare le traduzioni con la loro poetica del tradurre, con il loro appoggio al creare poetico e con risultati artistici a volte a lor modo autonomi e antologizzabili (il caso dei miei studi sul Cesarotti e il Pagnini), e insieme ripubblicare testi inediti o testi rimasti nelle edizioni scorrette sette-ottocentesche con la possibilità evidente di studi linguistici e critici piú sicuri e precisi.

Per risalire da tutto ciò ad una ricostruzione delle poetiche e dei risultati artistici con una consapevolezza tanto maggiore e con una nuova possibilità di meglio capire la storia letteraria nelle sue risposte artistiche a problemi culturali e storici, mediati dalla poetica in problemi artistici. Senza di cui si rischia di concepire la storia letteraria come un tunnel chiuso e isolato e di costruire linee di continuità e novità solo letteraria e tecniche (pur cosí importanti ed essenziali in una vera storia letteraria) e, viceversa, di appoggiare la storia letteraria ad uno sfondo storico manualistico ed elementare che è spesso la fonte dei peggiori fraintendimenti. Come, per appoggiare l’Arcadia al Gesuitismo, si può rischiare (a parte gli errori «premanualistici» di chi recentemente ha fatto addirittura di Gravina un gesuita) di non distinguere nelle stesse proposte di poetica arcadica fra il Crescimbeni, il Gravina e il Muratori, con le loro diverse istanze culturali ed ideologiche, e di non capire ad esempio la forza tensiva del classicismo graviniano rigoristico e antigesuitico (con tutta una rete di giustificazioni culturali recentemente accennate dal Badaloni) e il fatto fondamentale che la stessa Arcadia è ricca, specie nel suo fronte iniziale, di tensioni ideali e letterarie che danno ad essa – sulla prospettiva generale del rinnovamento del buon gusto e della lotta antibarocca – una vivacissima articolazione e rappresentabilità storica assai complessa.

Né cosí facendo si surroga dall’esterno ad una possibile mancanza di poesia, ché, sulla spinta della poetica e della sua viva commutazione in direzione artistica di elementi non solo letterari, tanto meglio si misura, dall’interno della storia e delle personalità storico-poetiche, il realizzato e l’informe, il retorico e il vivo e si valuta, come si deve, anche il valore collaborante che hanno la tensione alla poesia e il suo corrispettivo storico meglio che in una disposizione puramente seriale di singole personalità e di puro esame di poesia e non poesia secondo i termini del crocianesimo ortodosso.

In una simile prospettiva di ricostruzione storicistica (e in accordo almeno generale con la parte iniziale della delineazione del Croce e del Fubini) si può qui rapidamente articolare la prima fase, il primo raggio di poetica del Settecento italiano: l’epoca arcadico-razionalistica, con le sue poetiche, inseparabili da una centrale e complessa spinta rinnovatrice di carattere anzitutto morale e culturale, ma insieme di impegno estetico e di nuova costruzione artistica. Spinta che va rilevata anzitutto nella sua Weltanschauung antibarocca o concretamente non piú barocca: filosofia morale e razionalistica, tensione alla pubblica felicità e al paternalismo illuminato, esigenza di riforma e ripresa della tradizione come sostegno di nuova attività, rottura dell’isolamento provinciale barocco e senso di una società almeno di dotti, di uomini «bennati» e «prudenti», esercitanti il buon gusto come nozione circolare di buon discernimento scientifico e critico, di saggezza morale, di schiettezza sentimentale, di correttezza e proprietà linguistica, di organicità e chiarezza stilistica, di mentalità razionalnaturale che vuol tradursi in poesia spontanea e controllata, con un nuovo legame di cose e parole, di «sodi» pensieri e di stile comprensibile, comunicabile, efficace. Ciò che riprospetta in maniera diversa gli stessi elementi stilistici e terminologici del residuo barocco su cui troppo spesso (sulla direzione del Calcaterra) si è puntato guardando ad una piú astratta storia di gusto e di stile.

Ché si dovrà, da una parte, rivedere lo stesso Seicento nella sua complessità (il chiabrerismo, la linea moderato-barocca studiata da Franco Croce, gli elementi eroico-morali di certo tardo-barocco settentrionale piú utilizzabili in lata funzione prearcadica) e considerare la crisi interna del barocco nel secondo Seicento (tra l’impeto piú solitario del barocco fiammeggiante di fine-secolo e il ripiegamento evidente su posizioni piú guardinghe: distinzione fra metafore proprie e metafore false, ricerca di autorizzazione classica a un piú moderato uso di stilemi barocchi). E soprattutto si dovrà avvertire lo spirito nuovo, l’accento nuovo che permea la stessa terminologia di ascendenza barocca nell’estetica e nella poetica (si pensi all’operazione di distinzione sottile del Muratori nei capitoli quarto e quinto del secondo libro della Perfetta poesia a proposito del vero e del falso delle immagini), e che svolge, verso la linea agile e mossa, ma lucida e ordinata del rococò classicistico-razionalistico, moduli provvisori di barocchetto con tutto un impegno complesso di filtro della musicalità e immaginosità barocca in forme piú limpide e organiche, adeguate alla mentalità razionalnaturale della nuova epoca e a quel controllo della ragione che positivamente serve insieme a difendere la fantasia dal lusso dispersivo, dalla «lascivia» barocca e dall’inaridimento prosastico dei boileauiani francesi con il riconoscimento duplice e connesso dei diritti della fantasia e del suo dovere di reinserimento in un contesto morale e civile.

Con tutto un vasto convergere, nella costituzione dell’Arcadia, di istanze letterarie e di istanze piú generali che le sorreggono in un ampio fronte iniziale di fine Seicento che va adeguatamente studiato nella sua ricchezza di motivazioni storico-culturali e nella varietà dei contesti e dei problemi legati a precise situazioni personali e ambientali, per meglio capire la forza di apertura, l’impulso rinnovatore dell’epoca arcadico-razionalistica e delle sue poetiche prima del prevalere della linea crescimbeniana-romana e del suo carattere di impoverimento e di consolidamento del gusto arcadico.

Si pensi per quel che riguarda Caloprese e Gravina al rapporto delle loro proposte teorico-pragmatiche con particolari istanze della cultura speculativa etico-civile meridionale, che motivano nel Gravina la sua poetica classicistica e mitico-didascalica con esigenze di rigorismo morale, di impegno democratico (cosí chiaro nella tematica delle sue tragedie), di nuovo e severo contenutismo etico-civile, con il bisogno di assoluta organicità dell’opera, e che, pur distinguendolo, lo inseriscono nella matrice storica della grande esperienza vichiana che viene apparendo sempre meno solitaria e piú fortemente legata alla storia del suo tempo.

O per quel che riguarda la prearcadia e arcadia toscana si pensi al rapporto fra la ripresa e continuità galileiano-rinascimentale, irrorata di nuovo sperimentalismo e razionalismo, e le nuove esigenze letterarie di chiarezza, ordine, organicità, con tutto un vivo legame fra cultura e poetica, con la ricerca (fra Redi e Menzini) di un recupero di realtà nelle parole e di schemi costruttivi che tendono ad adeguare uno spirito lucido critico e socievole in misure di dialogo e scena, in ritmi agili e mossi con un rilievo finale che dipende però dal centro tematico e ritmico e si oppone allo scoppio concettistico barocco.

O infine, per quel che riguarda la zona settentrionale piú apertamente ricca di motivi morali e religiosi (svarianti fra la pietas gesuitica e dolciastra del De Lemene e quella piú severa e autentica del Maggi), si pensi al rapporto fra moralità e poetica, fra senso del vero e del bello che trovano le loro punte piú alte nella meditazione estetica, critica e pragmatica del Muratori e del Maffei, nelle istanze morali del teatro dello Zeno o della satira riformatrice del Marcello, e dell’eroico morale piú velleitario, ma non privo di un suo impeto arduo, del Guidi, e soprattutto nella poesia meneghina e in lingua del Maggi (un autore che va ristudiato con piú attenzione e che cosí rivelerà un passo e un ritmo morale espressivo di notevole consistenza) o nella limpida poesia del Manfredi sull’appoggio di una mentalità nitida di scienziato e di un fervore morale e spirituale che gli permetteva di far rivivere forme petrarchesche in una versione nuova e originale.

Con tutta una ricca tensione di poetica e di risultati or parziali e velleitari or piú interi e sicuri, che corrisponde alla difficile nascita di una mentalità, di una cultura, di una letteratura nuova: polemica antiipocrita alle origini di tanto teatro comico (Gigli e Nelli), polemica contro le usanze semifeudali della società barocca, leggi contro violenza e arbitrio, recupero dell’elemento femminile alla vita socievole e culturale, al bisogno di civile conversazione. E i ritrattini delle biografie arcadiche nel loro modulo di conversione morale-poetica, pur con tutto quello che hanno di accademico e di rigido, sono altrettanti spiragli illuminanti su di una società nuova in lenta formazione con remore, residui, pericoli conformistici ed eccessiva prudenza, ma certo con una nuova circolazione di idee, con un nuovo costume, con un maggiore apporto di ceti borghesi e una iniziale conversione di zone aristocratiche, attraverso la cultura, ad una nuova forma di partecipazione civile.

D’altra parte, in questa prima fase di apertura, alla sua maggiore ricchezza e impegnatività corrispondono chiari limiti di moralismo (l’attacco di Muratori all’immorale ed empio Molière), di remore confessionali che ritardano gli elementi preilluministici, di eccessiva fiducia nella riforma della poesia ad opera di volontà e di intelletto (l’ingenuità muratoriana nell’invito agli scrittori italiani alla gara con i francesi nel campo del teatro: «Sudino, s’affrettino, ed empiano finalmente una sedia che promette sicuramente un nome eterno a chi saprà conquistarla»), di infatuazione megalomane per i prodotti nuovi purché antibarocchi, e tutta una certa rigidezza, corrispettivo di una cultura non bene affiatata circolarmente, di una poetica che spesso scambia forme barocchette grandiose con una nuova e piena classicità. E insieme un eccessivo divario fra proposte contenutistiche e formalistiche e una proliferazione morbosa di pseudo-poesia convenzionale e di esercitazione poetica come «dovere sociale» che sovrabbonda specie nella linea romana crescimbeniana di un’Arcadia bonne à tout faire e troppo spesso portata (specie dalle correnti piú conformistiche e curiali) a risolvere la sua contemporaneità in letteratura encomiastica di potenti e di occasioni frivole.

Ed è su questa linea, la quale ebbe pratica vittoria nella polemica interna e finí per prevalere anche come poetica, che si può misurare un certo restringimento e impoverimento di motivi e temi rispetto alla primissima Arcadia, ma anche un effettivo consolidamento, come uno sciogliersi della prima rigidezza, una corrispondenza piú effettiva alle condizioni dello sviluppo della società settecentesca, con la sua effettiva limitazione delle piú sproporzionate tentazioni grandiose, con le sue esigenze socievoli e conversevoli, con la sua mondanità vivace ed idillica, ottimistica e saggia, con il suo bisogno di moderato erotismo e di galanteria (che era pure un elemento di maggiore vivacità di fronte al moralismo troppo rigido delle tendenze piú forti della prima Arcadia), con la piú forte esigenza di musicalità e canto come sviluppo poetico e con quella stessa convenzione pastorale che ambiguamente celava pur motivi di naturalezza e di rinnovamento della società con il ricorso all’ingenua natura.

Sicché questa linea, che riduce gli impegni maggiori della prima fase e che può presentarsi anche come uno scacco delle istanze pila serie della poetica arcadico-razionalistica, è in effetti una via piú storica e praticabile, piú commisurata alle possibilità della generazione nuova e al suo gusto piú chiaramente idillico-edonistico, allo sviluppo delle sue esigenze stilistiche che si configuravano sempre meglio in un accordo preciso e strettissimo fra una mentalità razionalistica e una sentimentalità idillica e patetica, fra recupero di vita, analisi dei sentimenti in una zona compatta e limitata, piú sicura ed esercitabile, fra senso lieto di un ritmo vitale, nitido, caldo, pauroso di eccessi e di dilatazioni dispersive, e una poetica miniaturistica (rifare i classici «in piccolo» sarà l’impegno di una civiltà estremamente misurata e consapevole dei suoi limiti) e melodrammatica, in cui la componente rococò si sviluppa e confluisce con un classicismo ridotto, con un petrarchismo «illeggiadrito», recupera elementi di un piccolo realismo idillico e domestico legato a un gusto dell’abitabile, del galant e poli, di una fruizione lieta e animata di condizioni di socievolezza e di attività e di beni mondani privati della «lascivia» e del turgore barocco.

Su questa via, che riassorbiva istanze morali piú risentite in forme minute e mediocri di saggezza edonistica, la poetica arcadico-razionalistica risolveva la sua fondamentale vena melodrammatica (melodramma come simbolo e modulo centrale dell’epoca che si impone anche là dove riprese guidiane e graviniane tendevano a modi alti e tragici; simbolo e modulo di una vitalità lieta e patetica, bisognosa di animata trepidazione e di lieto fine) e trovava la sua piú vera espressione poetica nell’opera del Metastasio, punto fermo e terminale di quella che è per me la vera storica Arcadia, poeta di quella complessa tensione e della sua soluzione piú limitata ed organica. Tanto che verso il ’35 lo stesso Muratori, avversario strenuo del melodramma, doveva riconoscere in Metastasio il vero poeta del tempo che aveva vinto dall’interno le stesse obbiezioni muratoriane al melodramma di fine Seicento con la sua disorganicità, con la sua mescolanza di stili, con la sua improbabilità di vicenda e di situazione, con la sua lasciva vena erotica, con il suo asservimento della poesia alla musica.

E cosí, a suo modo, era di fatto avvenuto per mezzo dell’assidua opera di poetica e di poesia del Metastasio, che aveva ripreso lo strumento piú congeniale al suo tempo e lo aveva riformato alla luce delle istanze arcadico-razionalistiche piú mature, ed entro un percorso minuto, interessantissimo, di prove e riprese: il cammino fino allo sbocco della Didone con la riassimilazione di elementi tasseschi e del secondo Cinquecento, idillici, elegiaci immaginosi e musicali riportati in misure nitide e brevi, filtrati a forza di ordine classicistico-razionalistico e di agilità rococò, e poi il cammino piú arduo fino ai melodrammi viennesi del ’32-33 attraverso un’attenta commisurazione di patetico e di melodico, di trama teatrale e tessuto poetico (secondo la formula del Varese), fino alla conquista di uno strumento armonico e articolato in cui far fluire interamente la sua vena idillico-patetica, le vibrazioni e le variazioni del cuore, fra recitativi ed ariette, entro uno schema perfetto, ad orologeria (che va valutato soprattutto per la sua possibilità di scatto preciso della situazione in rapporto allo svolgimento melodico-patetico). E cosí traduceva in poesia la vita sentimentale turbata e rasserenata alla luce di una concezione razional-provvidenziale, patetico-ottimistica che è la summa stessa (tradotta poi piú esternamente nelle sentenze canore di certe ariette meno funzionali e nella stessa concessione piú astratta ad un compenso eroico-romanzesco delle velleità tragiche ed eroiche) delle aspirazioni e ispirazioni dell’epoca.

Capovolto il rapporto musica-poesia in un’effettiva sottolineatura subordinata della musica rispetto all’espressione della parola (come dimostra tutta la giustificazione estetica dei suoi scritti sulle poetiche di Aristotele e di Orazio e del suo epistolario), risolto il rapporto ragione-poesia in una specie di immagini e situazioni chiare e distinte, ma dense di affetti e tradotte in un linguaggio chiaro, nitido, semplice ed elegante, musicale ed espressivo, popolare e letterario (in cui la riduzione è soprattutto scelta e rinforzo di parole essenziali in relazione a temi e nuclei ispirativi, e opera di superamento dell’avventurosità barocca), realizzato in poesia lo slogan arcadico del «sogno in presenza della ragione», il Metastasio offriva al suo tempo opere poetiche originariamente profilate e storicamente rappresentative di una vissuta partecipazione agli ideali dell’epoca, pensate per un pubblico la cui sollecitazione viva lo stimolò fino al culmine dell’Olimpiade e del Demofoonte, quando quel rapporto con una società e un pubblico si trasvalorò, entro la situazione personale dei primi anni viennesi, in un ulteriore incentivo della nostalgia e questa si commutò in un piú elastico senso di intera e armonica rappresentazione e finzione poetico-teatrale.

Il bisogno di dialogo e canto, di scena e personaggio, di analisi e sintesi dei sentimenti patetici, di ritmo animato vivace e limpido, di linguaggio interamente comprensibile e pur eletto e non prosastico (che viveva nelle aspirazioni dell’epoca e che già si era tradotto in forme minori e piú povere nel sonettismo melodrammatico dello Zappi e della Maratti), trova nelle opere mature del Metastasio la sua esaltazione poetica, incentrata in una vena poetica gracile, limitata, ma sincera, limpida e inconfondibile (magari il flauto di cui parlava il Foscolo, ma ricco di gamme deliziose ed espressive), che poté non a torto affascinare ancora Baretti, Rousseau, Leopardi, il quale di certi schemi di recitativo, di certe invocazioni al cuore, di certi impasti linguistici semplici ed eleganti poté pur servirsi nella sua grande poesia, lontanissimo, come centro spirituale, da ogni immagine insopportabile di ultimo e divino pastorello di Arcadia, ma non privo di possibili simpatie con il tenero e cristallino canto delle pene e gioie delle fragili, ma pur luminose, giovanili creature idilliche in cui il Metastasio aveva trasferito il succo piú puro del suo animo sensibile, del suo tempo attivo, delicato e gentile.

Ma quella vena limpida e difficile, che sgorga al culmine di un’opera lunga e rigorosa di scelte, di prove, di ricambio fra poetica e poesia, si esaurisce all’altezza dei suoi risultati maggiori e il declino del poeta corrispose all’esaurimento del suo accordo col tempo e alla chiusura effettiva di quella fase e di quella poetica.

Mentre lentamente il razionalismo si svolge in illuminismo, la sensibilità patetica si svolge in sensibilità sensistico-illuministica, e poi piú tardi in sentimentalismo preromantico, e il classicismo arcadico-rococò si svolge verso il classicismo illuministico e poi verso il neoclassicismo, il rapporto del Metastasio col tempo storico, culturale, letterario si fa sempre piú discorde e diffidente. E la solitudine cortigiana viennese lo isola sempre piú in un limbo sempre piú astratto di eroismo cavalleresco-romanzesco (che avrà pure influssi notevoli europei sul tema dell’anima-bella e che nel periodo piú ispirato funzionava efficacemente quando era in rapporto subordinato di appoggio allo sviluppo del patetico), mentre egli giudica sempre piú preoccupato e amareggiato, conservatore e reazionario, il «secolo illuminato» foriero di uno sconvolgimento rivoluzionario dell’ordine assolutistico-paternalistico della sua vera epoca, e allo stesso modo giudica negativamente sia il turbamento di una sensibilità che gli par ripresentare pericoli di nuovo secentismo e negare la visione idillico-provvidenziale arcadica, sia lo stesso filosofismo in versi e l’eccessivo credito ai greci di cui egli aveva giudicato aspramente le sconvenienze e gli eccessi «sublimi» da un punto di vista morale ed estetico.

I limiti storici del Metastasio sono anche i limiti storici dell’Arcadia, delle sue poetiche e della sua produzione letteraria, il cui aspetto piú convenzionale e parassitario ed ozioso ed evasivo-idillico si accentua fra la divulgazione frugoniana (avvivata semmai da nuovi temi non piú arcadici negli «sciolti») e il moltiplicarsi degli improvvisatori (al centro Bernardino Perfetti e Corilla Olimpica) in cui si perdeva la forza delle istanze culturali e vitali che avevano animato l’Arcadia al suo sorgere e nel suo sviluppo maturo, mentre i protagonisti dell’Arcadia o si esauriscono poeticamente come il Metastasio, o scompaiono materialmente, o si volgono interamente alla cultura, alla storiografia, all’erudizione, accentuando, anche con nuovi contatti europei (i viaggi di Maffei, Rolli, Conti, Algarotti) una maggiore coscienza europea e i loro impegni ideologici che rappresentano il legame piú attivo verso lo sviluppo illuministico, nella coincidenza col sorgere dei nuovi stati assolutistici illuminati.

E la poetica viene chiaramente cambiando già dal seno dell’Arcadia, con il nuovo impegno figurativo prevalente sul canto e sulla spinta melodrammatica, come avviene nel Rolli degli «endecasillabi» con un di piú di classicistico e di sensuoso rococò avvivato da incipienti riflessi del sensismo anche nel canzonettismo piú icastico e figurativo del Crudeli e del Casti e in relazione a motivi di gusto e non solo di gusto (sviluppo di edonismo e di vivacità vitale incentrata nella figura umana con adeguazione classico-moderna). E il canzonettismo si carica di elementi sensistici e di libertà libertina che culmina negli Amori del Savioli, mentre lo slogan oraziano dell’utile dulci rinforza soprattutto la prima parte del suo binomio.

E se il Conti, che riprende l’elaborazione estetica del Gravina con nuovi elementi platonizzanti, tende ad una figura del poeta-filosofo di timbro neoplatonico e di avvio al neoclassicismo (ma insieme, con la sua eccellente traduzione del Riccio rapito di Pope, incoraggia piú da vicino il poemetto didascalico-satirico di tipo razionalistico-illuministico), certo, in quel giro di anni intorno al ’40, viene prevalendo il didascalismo in versi, appoggiato da una folla di traduzioni di didascalici latini e stranieri, vengono prevalendo il sermoneggiare oraziano e la figura del poeta-filosofo in senso illuministico, divulgativo, combattivo per nuove verità e nuova cultura, piú newtoniano che cartesiano: che è la proposta dell’Algarotti e la designazione di lui da parte del Bettinelli («util poeta e tosco Orazio»).

E insieme una reazione all’Arcadia si profila al di là delle interne autocritiche del Martello, e mentre un vecchio arcade, il Tommasi, nella prefazione del ’35 alle sue poesie, avverte con dolore che il secolo si è fatto scientifico e filosofico, non ama piú la «bella letteratura» e corre dietro a forme artistiche prosastiche e viziate dall’«empio» pensiero degli stranieri libertini e materialisti, la briosa satira algarottiana del Tempio di Venere (1745), contro il sonettismo versaiolo dell’Arcadia e il suo arcaico petrarchismo astratto e platonizzante, corrisponde piú in profondo alle stesse istanze dell’Algarotti a favore di una letteratura ricca di impegni culturali e civili, di una riforma (la parola dell’Arcadia, ma ripresa contro di lei) della letteratura e ripropone la stessa polemica arcadica contro il Seicento con un nesso di ragioni civili e letterarie piú vasto e profondo. Come poi anche piú chiaramente farà il Parini indicando nel Seicento non solo il secolo del malgusto e della lascivia letteraria e morale, ma il secolo dell’oppressione spagnola e dell’oscurantismo oppressivo del Concilio di Trento e della Controriforma. E la continuità classicistica si ripropone come piú forte ripresa dei valori di natura, virtú e libertà degli antichi, il melodramma viene aggredito insieme alla pura melodia della rima (Algarotti e Bettinelli) e accanto alla cura per la poesia si precisa tutta una nuova cura e una nuova problematica della prosa svolta al di là dei limiti piú accademici della prosa media arcadica (in cui pure van calcolati gli stili di prosa di un Muratori, Maffei, Giannone, Gravina, Martello, ma certo con una maggiore discordanza rispetto all’impegno di poetica delle opere in verso) e avvertita ora come piú diretto strumento di divulgazione e di battaglia di idee, piú spregiudicatamente avvicinata alla prosa francese come momento poi superabile (lo stesso Algarotti insegni con il passaggio dal Newtonianismo alla revisione dei Dialoghi) in un piú concreto incontro di tradizione e di novità.

La forza di novità della poetica illuministica si misura anzitutto nel rigoglio di idee e di esigenze che sostengono le stesse proposte sulla poesia piú legate con la cultura e la civiltà e riferite, pur in certa loro piú vulgata medietas poco incisiva, a nozioni di natura e ragione tanto piú cariche di riferimenti culturali e filosofici e di immediato impegno combattivo e pratico che vuol essere, con tutti i suoi limiti, una dignificazione della serietà della poesia: e la componente di evidenza sensistica colora in maniera nuova la cura di perspicuitas dell’umanesimo arcadico, come già può vedersi nell’appello illuministico algarottiano ai classici.

Nuovi elementi utilitaristici ed edonistico-sensistici entrano nella meditazione estetica, nuove e piú urgenti immagini di letteratura-civiltà circolano negli scritti del «Caffè» con il suo appello «cose non parole» (che poi era un modo rude per dire: parole nutrite di cose), nelle proposte iconoclastiche delle Virgiliane, nell’impetuoso Discorso sopra la poesia del Parini (connesso con il dialogo Della nobiltà e con la figura sintomatica, in quello, del poeta plebeo) con la sua immagine di una poesia nuova che ha perduto «i titoli pomposi di celeste, di divina, di maestra di tutte le cose, ma ha acquistato un merito, meno elevato a dir vero, ma piú solido e certo»: quello dell’utilità, dell’incidenza sulla realtà civile ed umana.

Sicché, con tutta la necessaria gradazione di trapassi, con gli elementi di eredità arcadica che sarebbe sciocco negare (per una preconcetta squalifica dell’Arcadia e per una pura e semplice adesione agli aspetti piú sommari dello schema desanctisiano), bisognerà dire che c’è un passaggio forte fra Arcadia e illuminismo e che esso va fatto valere energicamente anche nello studio della poetica attiva nell’epoca illuministica, e che quella non può dirsi piú arcadica rifiutando cosí decisamente la pura continuità di tipo crociano.

A me non sembra piú arcadica neppure la poetica piú laterale di metà secolo in direzione galante-edonistica e classicistico-rococò, come quella del Savioli con i suoi Amori (1758-65), tanta è la maturazione in essa di una nuova tensione allo spicco sensuoso della figura e della scena, ad un lucido e smaltato realismo di gemma incisa, ad un ritmo meno fluido, meno canoro, piú secco, brillante, clavicembalistico: tensione legata ad una tendenza erotico-edonistica che ha riferimenti chiari con un’epoca di apertura di libertà e di spregiudicatezza, tanto piú acuta, pungente, ardita di quella dell’Arcadia.

Classicismo sensistico-rococò, su base illuministica, con i suoi aspetti piú marginali di brio, di avventura, di malizia sorridente, di pimento e resa sensuale, come conforto e ornamento espressivo di una vita piú aperta e libera, tutta mondana, di una società illuministico-aristocratica, che è pure una delle forze attive (e il Savioli con il suo sviluppo democratico repubblicano ne è riprova) nella civiltà illuministica. E classicismo rococò dotato, nel caso degli Amori, di una forza tecnica e storica che ne assicura la lunga durata esemplare di schema medio fino alla sua irrorazione (e alla fine disgregazione) ad opera di elementi preromantici (Bertola), di elementi neoclassici (Cerretti e Mazza), di nuova grandiosità scenografica (Monti), ma che mantiene il suo appello edonistico e libero fino alla sua immissione di stimoli nell’ode foscoliana alla Pallavicini (la piú vicina al Settecento pur nel suo nuovissimo impeto di vitalità e di eleganza).

Ma tanto piú deve apparire diversa ormai dalle condizioni della poetica arcadica (malgrado l’educazione arcadica e l’utilizzazione di elementi arcadici) la poetica pariniana all’altezza della sua impostazione nelle prime odi, nel citato discorso sopra la poesia, nei versi ricordati per l’Accademia dei Trasformati, ed essa, su temi illuministici militanti, si propone come la piú chiara e centrale poetica illuministica in Italia e in Europa.

Quando il Parini riprende l’utile dulci oraziano nella celebre battuta della Salubrità dell’aria («va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto»), egli espone una poetica sostanzialmente nuova, consapevole della sua novità («va per negletta via») sorretta dal senso poetico («la calda fantasia»), rivolta a tradurre, con i suoi mezzi raffinati, precisi e nuovi, con il suo linguaggio classicistico-sensistico, la volontà di un coraggioso impegno riformatore, di un intervento della poesia nella riforma della civitas illuministica concreta, storica e insieme paradigmatica per tutta una generale posizione umana. Di cui il poeta canta le feste, gli eroi, gli obbiettivi di lotta, con una carica nuova dei termini di «natura» e «ragione», «piacere» e «virtú», resi circolari e armonici in una civiltà piena e matura, in una tensione alta ad una poesia robusta ed eletta, istintiva e razionale. Tensione portata poi nel Giorno ad arricchirsi di toni ironico-satirici e di nuclei possenti di sdegno, e di sfumature di compiacimento edonistico, nella dialettica viva della sanità popolare e della raffinatezza della classe nobiliare di cui il poeta illuminista non vuol perdere gli aspetti di eleganza e civiltà, lontano com’è (e non c’è da rimpiangerlo se non in schemi antistorici per falso storicismo) dal percorrere la via del dialetto, di cui pur ebbe cosí forte sentimento, e del realismo immediato, per la sua stessa volontà di una civiltà riformata, non capovolta, secondo i moduli del suo illuminismo riformatore, non rivoluzionario.

Donde poi (a non fermar qui il Parini e magari ad esaurirlo nelle prime odi quasi fossero il suo capolavoro e non invece l’avvio impetuoso della sua poesia), sulla base di questo impegno piú aperto, si profila il suo svolgimento entro l’illuminismo verso forme piú sottili e poetiche, in cui il distacco opera sull’impegno, verso una evoluzione di tipo neoclassico che non significa involuzione e tradimento delle sue posizioni centrali, ma loro trasferimento in una zona piú intima (non piú astrattamente solitaria), meno immediatamente pratica, in un piú forte rilievo della sacertà morale della sua figura di poeta educatore, entro una civiltà che egli sente di aver contribuito a trasformare rendendola piú attiva, umana e poetica.

Evoluzione delle ultime odi (le piú grandi e poetiche del Parini) che ci può confermare l’avvertimento, da parte del maggior poeta illuministico, dei limiti delle sue prime posizioni e di quelli della poetica illuministica piú pratica e militante, e insieme richiede la considerazione di novità che quella prima poetica implicava e sulla cui forza nuova il Parini poté operare verso un acquisto poetico piú intimo e universale, verso una saggezza di sapore quasi goethiano.

In Parini la poetica illuministica ha il suo piú esemplare e centrale risultato-poetico che di tanto supera i limiti medi della produzione poetica illuministica, anche se, a misurare l’ampiezza e l’importanza della zona illuministica, si dovrà meglio considerare la prosa e acquistare alla zona illuministica, con cauto e duttile, ma pur centrale legame, l’altra grande esperienza poetica settecentesca, costituita dal teatro comico goldoniano.

Legato, nella sua formazione e nel suo sviluppo piú intenso (e in anni non chiariti in senso di consapevolezza illuministica come quelli in cui il Parini iniziava la sua vera carriera), all’ambiente veneziano ricco di fermenti nuovi, ma privo di una condizione favorevole quale fu per il Parini quella del gruppo illuministico lombardo e dello stesso atteggiamento riformatore del governo del Firmian e del Kaunitz, il Goldoni pur si inserisce in una civiltà di sviluppo razionalistico-illuministico medio, piú collegato alla base arcadica settentrionale (la piú ricca di fermenti morali e riformatori) e alle idee di riforma del teatro agitate appunto da Muratori e Maffei (e del veneziano Marcello per l’intera opera in musica), mentre la sua esperienza di lettura e il suo soggiorno toscano dovettero riportare a lui gli elementi piú vivi dei tentativi del Gigli, del Fagiuoli e del Nelli.

Ed è giusto quindi, col Fubini, rilevare l’importanza che ebbe per lui l’Arcadia (specie, ripeto, nella sua versione settentrionale), ma certo egli portò poi, entro un’atmosfera di illuminismo meno consapevole, di candido liberalismo (per usare i termini sempre molto appropriati di Nino Valeri), elementi nuovi di attenzione sociale (piú che civile), riflessi vissuti di ideali razional-naturali piú saturi ed attivi, con un amore vivo per la città degli uomini, per la sanità popolare, per la dignità e libertà umana entro ogni situazione sociale, che lo collocano di nuovo al di là della precisa dimensione arcadica.

Certo gli elementi piú aperti (e pur sempre lontani da un impegno rivoluzionario e prerivoluzionario o semplicemente di riformatore civile nel senso pariniano) in direzione illuministica il Goldoni li espresse nei tardi Mémoires, nell’ambiente francese di fine secolo, ma ciò che lí piú apertamente si liberava (ottimismo fiducioso e attivo di uomo tutto terreno, gusto per la città magari nei minimi segni di un’organizzazione umana, come le ammirate pietre picchiettate delle strade perché non si scivoli, nella descrizione di Venezia, la sua antipatia per la filosofia scolastica, per la superstizione, per i vapori mistici, il suo amore per il limite e per le situazioni concrete) era pur ben coerente allo spirito goldoniano anche nelle sue commedie e l’impeto di una civiltà piú umana, di una vita piú attiva e concreta, di un dialogo vero e corale (che aveva invece imposto tante difficoltà ai commediografi arcadici), sorreggono la sua poetica di «mondo e teatro», la sua riforma impostata sul naturale e sul vero, sul «bisegar in tel cor», la sua poesia di mondana letizia e di gusto del limite della situazione concreta. E la polemica anticruscante, antipindarica e antiaulica di tanti suoi componimenti scherzosi colpisce indubbiamente aspetti della poetica arcadica distaccandolo da quella ad un livello diverso di civiltà e di gusto. E la sua poesia e il suo linguaggio poetico possono addirittura sentirsi come le punte piú moderne della letteratura settecentesca e aprire una via piú moderna di quella pariniana, ma anche perciò piú chiusa rispetto alle possibilità settecentesche, meno operante e inseribile in una continuazione di civiltà letteraria in cui lo stesso classicismo non può considerarsi come puro impaccio e antistoricamente desiderarlo caduto, quando si pensi poi a quanto esso ha fruttato centralmente in un Foscolo e in un Leopardi, a quanto vivo e di moderno ha permesso di esprimersi nello stesso Parini.

Piú centrale, e per livello ideologico e per attivo corrispettivo storico di poetica, la posizione pariniana. Che nei suoi svolgimenti già accennati e nelle sue reazioni chiarisce, entro il suo piú tardo percorso, il duplice movimento che dal seno dell’illuminismo, dei suoi fermenti, dei suoi ricchi contrasti, si viene delineando nella letteratura italiana dal 1760-1770 in poi, con origine iniziale entro quel decennio formidabile di opere e di elementi nuovi, raccourci foltissimo che richiama anche al ritardo del pieno sviluppo illuministico italiano e all’incrociarsi della sua maturità, dei suoi sviluppi e della sua crisi (che assume un carattere piú vistoso nell’ambito delle poetiche).

Da una parte il preromanticismo che il Parini esplicitamente e duramente combatté come impura contaminazione della poesia italiana di tradizione greco-latina, dall’altra il neoclassicismo che egli accettava (anche sulla spinta di teorie e suggestioni figurative dell’ambiente di Brera, in una propria utilizzazione profonda e in accordo con il maturarsi del suo animo poetico, e diversamente da altre soluzioni neoclassiche, sempre con un forte nesso tra la poesia casta e nobile proposta,v a supremo livello, in Alla Musa, e un calore di sentimento e di sensibilità in cui i miti winckelmanniani di stille Grösse ed edle Einfalt perdono ogni astrattezza metafisica e ogni traccia di archeologico calco.

Quella musica alta e pura, quel senso intimo della poesia e insieme quella moralità che vi si trasfonde (scoprendo, quando occorre, i suoi elementi di sdegno in A Silvia) e che permetteva al vecchio Parini di instaurare un complesso rapporto con l’occupazione francese e la Cisalpina e di presentarsi al Foscolo su quella doppia e unica dimensione di arte e moralità esemplare, vanno certo ben al di là dei caratteri piú vulgati della poetica illuministica.

Sicché, pur ripercuotendosi magari in certi momenti della stessa poesia mondtina (ode Al Signore di Montgolfier e poi versione della Pucelle, in cui però lo spirito illuministico voltairiano è piú vivo nel lato comico libertino che in quello satirico-ideologico), il corrispettivo di poetica dell’illuminismo trova la sua zona breve e compatta fino al decennio ricordato. Quando, come dicevo, dal seno stesso dell’illuminismo (certo ben piú ricco di quanto in epoca idealistica si volle vedere) vengono sviluppandosi elementi che entrano in una diversa tensione di sensibilità, di intuizioni estetiche, di volontà di poesia, e che, secondo me, non possono alla lunga essere affermati solo come elementi tutti interni alla matrice illuministica, anche perché di fatto in Italia la spinta piú alacre dell’illuminismo (per la sua stessa natura piú riformistica che rivoluzionaria) veniva in parte esaurendosi, nella sua accensione piú ardente e negli elementi piú facilmente commutabili in spinta di poetica.

Ché lungo e complesso (e piú in via di chiarimento che di attuale chiarezza) sarebbe il discorso sullo sviluppo dell’illuminismo italiano con la sua tensione ideologica e pragmatica, con la sua forma di collaborazione a precise riforme di singoli stati italiani o di margine superiore alla concreta attività statale, con i suoi fermenti di contraddizione interna e di versioni e compromessi con la tradizione religiosa, con i suoi elementi di continuità e di rinnovamento entro il giacobinismo e la zona stessa romantica.

Ma per stare alla zona piú precisa della poetica e della commutazione di elementi storici, spirituali, sentimentali in intuizioni e tensioni di carattere poetico, è chiaro che dallo stesso «Caffè» e dagli scritti di Beccaria, di Pietro e soprattutto di Alessandro Verri, la componente sensistica mostra un certo dissociarsi dal saldo circolo ottimistico di natura-ragione e piacere-virtú. E un’accentuazione di sensibilità dolorosa, di esaltazione del sentimento, un appassionamento per gli errori utili, per le illusioni generose ed attive, per i diritti e la voce del cuore concorrevano in nuova direzione, con le intuizioni piú avanzate del Bettinelli nell’Entusiasmo o del Baretti tra Frusta e Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire o del Saggio sulla filosofia delle lingue del Cesarotti: entusiasmo e genio contro regole e fredda ragione, nazionalità e individualità del linguaggio, bellezza del «brutto» purché intensamente caratteristico e naturale, scoperta di Shakespeare, esaltazione del quarto canto dell’Eneide, dei canti di Francesca e di Ugolino.

Con tutta una vasta utilizzazione di stimoli stranieri (Johnson, Rousseau, ecc.) che costituisce, accanto all’assimilazione illuministica vera e propria, una nuova fase di fecondo contatto europeo da considerare non come pura e meccanica importazione (donde l’errore di una semplice riduzione di Baretti a scimmia di Johnson e della estetica e critica italiana a trascurabile dipendenza dall’Europa, come mi pare avvenga nel recente capitolo del Wellek), ma con crescenti ragioni proprie e con un particolare valore di viva novità entro la tradizione italiana e la sua prevalente tendenza classicistica. La quale, d’altra parte, non manca di esercitare anche in questo filone preromantico la sua influenza di riequilibramento e di smussamento, ma non fino al punto da ridurre le nuove tensioni sentimentali estetiche e poetiche a pura tematica indifferentemente esercitata ed edulcorata dagli impenitenti verseggiatori ed arcadi italiani. Né le componenti illuministiche presenti negli autori che partecipano a questa nuova tensione possono farsi denominatore comune fondamentale e ridurre gli elementi nuovi a puro riflesso di «moda ossianesca e nordica».

Scartate le vecchie denominazioni di Arcadia lugubre, notturna e preromantica che pospongono gli elementi di fondo agli aspetti piú esterni di residui arcadici presenti, specie nelle zone piú di maniera, da me a suo tempo sottolineate, non mi pare che basti riportare tutta la nuova ricchezza di tensioni sentimentali, la nuova tematica sollecitata dalle traduzioni di testi preromantici stranieri, i nuovi spunti di estetica e critica a un puro e semplice aspetto della civiltà e della poetica illuministica.

Ché anche qui si esercita non la mania degli «ismi», ma l’ansia storicistica di individuare correnti, tendenze e fasi. E come sono contrario alla globalizzazione arcadica per tutto il Settecento assolutamente insufficiente, cosí sono contrario, per tutto il secondo Settecento, ad una globalizzazione illuministica (pur sentendo nell’illuminismo la spina dorsale del secolo e la prima ragione del nostro amore per il Settecento) quando prevalgono gli elementi di crisi dell’illuminismo e si manifestano movimenti di sentimento, di gusto, di cultura che Alfieri, Foscolo, Leopardi (pur cosí pieni, e specie l’ultimo, di essenziali riprese illuministiche a nuovo livello) risentiranno in polemica con elementi centrali della civiltà illuministica e che già si instaurano in una direzione che porta ad altro, in direzione romantica.

Né si vuol cosí aderire ad una svalutazione dell’illuminismo consolidando in maniera polemica e tutta positiva gli elementi di reazione o di sviluppo diverso. Mentre si vuol solo legittimamente articolare e arricchire la comprensione nostra di una zona folta di passaggi, di crisi e di sviluppo, ben sapendo d’altronde che la storia è andata avanti anche attraverso la reazione all’illuminismo (e con la ripresa di suoi elementi a nuovo e diverso livello) e che altrimenti si può giungere all’assurdo desiderio di uno studioso che mi diceva, un giorno, fra ironia e convinzione: oh se non ci fosse stato l’Alfieri! Mentre questi, con la sua potente carica preromantica, con la sua versione preromantica di elementi illuministici, ha fondato un senso piú profondo della libertà, della poesia e dell’uomo e ha trovato le scaturigini della sua grande poesia tragica (tragica per natura e per storia e non per pura adesione a schemi di generi) proprio nella vissuta anche se non teoricamente giustificata sofferenza della crisi illuministica, della sproporzione fra reale e ideale, dell’urto dell’individualità romantica contro i limiti del reale e contro ogni concezione di ordine provvidenziale, cattolica o illuministica che fosse.

Esiste, anche in Italia, una zona che nell’Alfieri o nell’Ortis foscoliano si prospetterà in violente forme di contrapposizione ragione-passione, ottimismo-pessimismo, illusione-filosofia, e motiverà in parte la stessa reazione alfieriana alla rivoluzione francese con una matrice ambigua e rischiosa, ma carica di nuovi termini di arricchimento nella problematica dell’esistenza umana e nella stessa problematica culturale e politica. Esiste una tendenza di poetica che svaria fra le nuove intuizioni estetiche e critiche e le sollecitazioni delle versioni preromantiche e soprattutto del grande Ossian cesarottiano, miniera inesauribile di stimoli per i grandi poeti da Alfieri a Leopardi e immissione formidabile nella nostra tradizione di temi e immagini nuove (il senso oppressivo della morte e della notte, la natura selvaggia e in tensione, la voluttà del dolore, i paesaggi desolati e sconfinati del Nord, la tomba solitaria, l’eroismo primitivo e pessimistico) e di cadenze e di moduli espressivi e metrici nuovi entro l’endecasillabo sciolto portato a misura del sentimento irruente, malinconico, elegiaco, con le sue interrogazioni dolenti e grandiose che arieggiano, a ben guardare, un modulo interno di un’epoca di crisi, di domande piú che di soluzioni. Con forme generali di linguaggio nuovo tanto piú attivo perché, diversamente dalle versioni piú piatte o estremistiche, sa abilmente e ispiratamente risolvere la nuova tematica e sentimentalità entro i margini accettabili di una misura nuova e tradizionale insieme, mentre rimangono piú esterni certi tentativi sforzati di piccoli preromantici estremisti come il Viale o il primo Gargallo.

Né ciò si risolve solo nella preparazione della grande poesia successiva, ma trova già una possibilità di azione nella zona preromantica settecentesca in forme di mediazione piú cauta, ma tali da costituire una larga trama di poetica e di minori risultati tra prosa e poesia: il Viaggio sul Reno del gessneriano Bertola con il suo senso pittoresco preromantico, le Poesie e prose campestri del Pindemonte con i loro temi spesso preleopardiani (il valore della suggestione di oggetti quotidiani, la contrapposizione di verità scientifica e di verità poetica, il bisogno delle illusioni) e con la loro resa artistica gracile e luminosa, la loro temperie aristocratica di edonismo sensibile e sentimentale che si ripercuote sin nell’intenerimento di poeti piú legati a residui arcadici e rococò come il Vittorelli. Con una tendenza a ridurre, a mediare istanze preromantiche con istanze neoclassiche, che sembra a poco a poco esaurire la carica preromantica italiana, se non ci fosse l’Alfieri e subito dopo, al di là della versione piú scenografica e decorativa del Monti dei Pensieri d’amore e degli Sciolti al Chigi, l’Ortis foscoliano.

Zona dunque e tendenza da sottolineare e limitare nella sua precisa forza ed estensione, anche se un’operazione piú vasta e generale non ci dovesse preliminarmente fare intendere come certe esigenze preromantiche vivano a lor modo e in una direzione di reazione all’illuminismo (e soprattutto delle sue dichiarazioni poetiche sull’utile-dulci, sul poeta filosofo, sul didascalismo scientifico e pratico) anche alla base della ripresa classicistica in forma neoclassica.

Non solo l’elemento di nostalgia che i preromantici collocano nel primitivo e nell’esotico e che i neoclassici situano nel passato greco come epoca di perfezione umana e poetica, ma la stessa generale impostazione di tensione alla poesia sublime, grande, geniale, ispirata, immaginosa, di fronte a quella che appariva una depressione della poesia in forme troppo discorsive e scientifiche.

L’alta protesta dell’Alfieri, all’altezza del Saul, contro il secolo «tanto ragionatore e niente poetico» (e nella volontà di una poesia piú immaginosa e varia), trova una certa corrispondenza e contemporaneità con le numerosissime versioni della Bibbia, con l’amore del Cesarotti per il «sublime» dell’Ossian, con l’infatuazione del Monti per la poesia degli ebrei e il suo disprezzo per la poesia miniaturistica e idillica nel Discorso preliminare al Saggio di poesie del ’79 (con dietro la tensione ibrida del Varano e del Minzoni, con il loro dantismo e michelangiolismo e le loro ragioni conservatrici e cattoliche anti-illuministiche), con le proposte di poetica del Mazza e del Rezzonico per una poesia di neoclassicismo grandioso, con una particolare ripresa di certi aspetti della prima Arcadia eroicizzante e del frugonianesimo piú «alto».

C’è insomma intorno al ’70-80 una concitazione in gran parte velleitaria e, alla fine, in molti casi libresca e fastidiosa, ma non casuale, legata alla critica dell’illuminismo e soprattutto delle sue poetiche, e che viene riducendo di forza le stesse forme di classicismo rococò di tipo savioliano esercitate dai «lombardi» (con le varianti piú morali e idilliche di un Cassoli), ma da essi (Cerretti, Mazza e Rezzonico) poi rifiutate a favore di poetiche piú alte e sublimi, rinforzanti l’aspetto di novità delle stesse poetiche neoclassiche.

Queste, a parte la loro piú alta ed autonoma espressione nella poesia pariniana delle ultime odi, e dunque con un alto corrispettivo poetico nel loro stesso seno, si pronunciano con un certo scarto cronologico rispetto all’ondata preromantica appoggiata alle traduzioni e all’Ossian, e infatti, mentre si alimentano di alcune istanze preromantiche, si svolgono in una specie di lotta a piú fronti, sia contro il preromanticismo esotico e barbarico e il suo contenutismo sciatto e privo di stile e di tradizione, sia contro i residui arcadici localizzati nel meridione (il cosiddetto «facilismo meridionale» metastasiano combattuto dal Cerretti e, nelle sue forme melodrammatiche, dall’Arteaga e dal Bettinelli), sia contro il filosofismo in versi di tipo illuministico, francesizzante e impoetico. Forme di misoneismo nazionalistico e cattolico si mescolano con istanze poetiche piú schiette e con esigenze stilistiche e linguistiche (rilevate dal Bigi nei teorici neoclassici di fine Settecento) che troveranno alta continuazione e superamento nella polemica leopardiana contro i romantici.

Esigenze neoplatoniche e metafische (bellezza ideale, armonia, musica rasserenante) si mescolano con riprese di nuovo didascalismo moralistico volto al καλὸϚ κἀγαϑόϚ e ad una educazione di giovani «bennati» e di «anime belle», in una tensione aristocratica che pur si apre a spiragli di piccolo realismo domestico e a nuove forme di idillio sull’appoggio della nuova intensa ripresa di traduzioni classiche, con al centro la magistrale versione dai greci del Pagnini che sembra preparare cosí spesso versi e cadenze delle Grazie.

E d’altra parte con cadute in un archeologismo di archetipi gessosi o in una nuova discorsività pacata ed esangue, ma, dentro, questo valore almeno intenzionale, di rivincita della poesia, della bellezza, della tradizione e dello stile contro il praticismo e contenutismo: valore che guida, alla fine del secolo, alla ibrida via eclettica del Monti (con la sua finale risoluzione neoclassica della Feroniade, ma attraverso un difficile sviluppo degli elementi neoclassici piú schietti entro le interne resistenze rococò e scenografiche) e poi alla via foscoliana delle Odi e delle Grazie e a certi temi della discussione romantica del Leopardi, e indubbiamente ha una sua importanza nella complessa formazione del romanticismo classico italiano, quando la tensione piú astratta alla bellezza ideale diverrà tensione a valori consolatori e perfetti, luce della grande poesia sulle miserie della sofferenza umana.

Ma il secolo si chiude in realtà con le due opposte soluzioni, neoclassica del Parini e preromantica dell’Alfieri. Le due poetiche, mentre si intrecciano e passano a base delle grandi sintesi foscoliana e leopardiana, trovano due alti risultati poetici entro il limite cronologico del secolo: quelli appunto del Parini e dell’Alfieri.

La prima piú in accordo con un cauto e armonico sviluppo di base illuministica, la seconda con una reazione all’illuminismo e un trasferimento di elementi illuministici in funzione romantica, con una novità e una potenza che va al di là di quella del Parini, fino a determinare l’intuizione-incomprensione che il Parini ebbe dell’Alfieri riconoscendone la novità sentimentale, ma non riuscendo a risalire da essa all’originalità del suo stile.

Perché al centro della personalità e della poetica alfieriana, con il suo mito del letterato agonistico e anticonformista (anche di fronte a governi «illuminati»), con l’immagine della poesia come piú forte figlia del forte sentire, vive, ben al di là dell’equilibrio pariniano e delle manifestazioni piú idillico-elegiache dello stesso preromanticismo, il motivo piú profondo della crisi illuministico-preromantica: accentuazione dell’unica radice del bene e del male nel forte sentire, esaltazione degli oscuri fermenti della precoscienza e insieme disperata tensione morale, rivolta contro un ordine delle cose, cattolico o razionalistico, limitativo della nuova personalità umana, aspirante ad una libertà ed affermazione infinita e insieme dolorosamente consapevole del limite esistenziale, risolta nel modulo tragico della matura e complessa tragedia alfieriana che si sviluppa pienamente quando la crisi è interamente approfondita.

Impeto di liberazione e ripresentarsi del limite in un movimento di delusione disperata e virile, mai privata del suo accento di lotta e di dignità eroica. Il riaffiorare del senso dell’infelicità nel tiranno Filippo, dell’empietà in Mirra, della tremenda mano di un Dio biblico in Saul, dell’amara constatazione della squalifica degli sconfitti nella Congiura dei Pazzi, al di là dei tentativi piú provvisori dello schema piú affermativo della Virginia.

E al modulo interno e costruttivo preromantico corrisponde tutta una ricca gamma di connotazioni preromantiche portate al loro esito piú aperto e poetico: cosí il senso di una natura che, alimentata dalle suggestioni ossianesche, le trasvalora in un nuovo accordo di moduli personali storici di paesaggio in tensione e di stati d’animo turbati e drammatici («il cor cui fiamma inestinguibil cuoce», «e muggian l’onde irate in suon feroce») fino al riaffiorare di una superiore calma (il percorso sintomatico del capolavoro del sonetto a Marina di Pisa dell’85, nell’epoca suprema fra Saul e Mirra) nata sulla intensificazione e concitazione estrema della sensibilità, cosí i caratteri suoi del linguaggio, della costruzione articolata e ascendente che adegua il moto tempestoso e impetuoso dell’animo che veniva scoprendo il senso dell’infinito, l’analogia romantica tra musica e sentimento malinconico, le intermittenze del cuore e il recupero intensificato del passato nel risorgere improvviso del ricordo, conseguiti poi nella Vita, in cui si riverberano in senso nuovo le stesse esperienze di prosa francese degli anni formativi, cosí come lo studio degli illuministi, che tanto lega l’Alfieri al suo secolo, si svolge attraverso l’estremismo della Tirannide e l’ingorgo di Del Principe e delle Lettere in una misura nuova di crisi e di divario fra ideale e reale, in una rivolta alle forme piú consolidate e vulgate della civiltà illuministica e dei suoi corrispettivi di poetica.

Via il melodramma in ogni sua accezione, via gli elementi idillici rococò, via la saggezza equilibrata del Parini e la sua preoccupazione umanitaria, entro un selvaggio e potente impeto sentimentale (e pur chiaro e senza sbavature di misticismo e di oscurità), carico, se si vuole, di veleni nazionalistici e irrazionalistici, e forse anche di pericoli di ricadute spiritualistiche, ma carico anche di germi potenti di futuro sulla grande via del Foscolo e del Leopardi.

Ché subito dopo, in un accelerarsi incalzante di tempi, proprio alla fine del secolo, dopo una rapida esperienza che brucia tutti i termini delle poetiche settecentesche piú tarde (saviolismo bertoniano, idillio vittorelliano, elegia preromantica, visionarismo montiano), attraverso l’alfierismo del Tieste e un recupero vasto della letteratura europea piú moderna, l’Ortis esprime, nella sua densa spirale di anelli di sofferenza e testimonianza personale, politica, storica, esistenziale, i fermenti piú vitali dell’estrema civiltà settecentesca e dei suoi germi romantici, maturandoli ad un livello che lascerà sorpresi e perplessi il Cesarotti, il Bettinelli, il Pindemonte. Come il suo neoclassicismo romantico supererà, con i suoi temi drammatici e la sua nuova misura di ritmo (il ritmo prima tragico lirico dei sonetti minori, poi quello ad unico respiro e voluta lirica dei grandi sonetti) e con il suo nuovo linguaggio, le possibilità del gusto settecentesco piú avanzato. E l’illacrimata sepoltura del sonetto A Zacinto risolverà in assoluta originalità la gocciolante sentimentalità preromantica e il nitore neoclassico, mentre a nuovo livello il Foscolo riprenderà temi del Gravina, del Conti, del Vico e tutta l’eredità della poesia sepolcrale e l’aspirazione neoclassica alla bellezza e armonia, nella elaborazione nuova di valori vitali e culturali della grande poesia dei Sepolcri e delle Grazie.

E il romanticismo lombardo del «Conciliatore» riprenderà, nella sua nuova problematica, temi illuministici, preromantici e neoclassici («Caffè», Baretti e Gravina), e nel Manzoni ritorneranno, nella stessa polemica sul Seicento, e nell’antipatia per il romanzesco e il chimerico, motivi già avviati dal Muratori. E sin la lezione di chiarezza degli umili arcadi e quella degli illuministi non saranno senza utilità per quella nuova grande epoca poetica cosí rivoluzionaria e profonda e pur cosí limpida e chiara, cosí fantastica e pur razionale, poesia di poeti che vollero veder chiaro nei loro problemi e nei problemi del tempo, che ebbero profonda coscienza morale e civile, sino alla suprema protesta morale ed umana della Ginestra leopardiana, grandiosa ripresa di temi illuministici in una nuova tensione romantica.

Cosí il Settecento italiano rivela ancora, anche di fronte alla nuova grande epoca romantica, la sua ricchezza di poetica in senso di preparazione di una grande tradizione e di una grande civiltà, ma insieme la sua ricchezza interna di poetica e di poesia senza di cui la stessa forza preparatoria non avrebbe avuto possibilità di estendersi e di concretarsi sull’appoggio di effettivi risultati.

Soprattutto non si potrà piú, secondo me, ritornare a immagini livellanti di un Settecento mediocre, frivolo, impoetico, sol conversevole sul piano di una totale Arcadia ricca magari di elementi critici ma incapace di poesia, o, molto peggio, come capovolto corrispettivo del marinismo o semplice errore umanistico, alla luce, in questi due ultimi casi, di disperanti continuità astoriche e, peggio ancora, di concezioni mortificanti di «nihil sub sole novi».

C’è invece, e per fortuna, sempre molto di nuovo sotto il sole, e molto di nuovo e di vivo, di preparatorio e di consolidato, ha offerto il Settecento italiano per chi lo studi senza preconcette svalutazioni, in tutta la sua complessità e graduazione storica. Per questo alcuni studiosi hanno dedicato e dedicano ad esso tanta parte del loro lavoro e della loro vita tutt’altro che «arcadica» e solo letteraria.


1 È il testo, lievemente modificato, della relazione da me letta al Congresso dell’Associazione di lingua e letteratura italiana, tenuto a Magonza e Colonia, dal 27 aprile al 1° maggio del 1962, e dedicato al Settecento. Sproporzionato rispetto al testo sarebbe il numero di riferimenti bibliografici che esso presuppone. Per quanto mi riguarda sarà ovvio che la presente relazione si imposta metodologicamente in rapporto alle idee piú recentemente esposte nel saggio Poetica, critica e storia letteraria (nel n. 1 del 1960 de «La Rassegna della letteratura italiana» e ora ampliato in volumetto presso l’editore Laterza) e si avvale dei miei numerosi studi sul Settecento: dal volume Preromanticismo italiano, del 1948, dalla Vita interiore dell’Alfieri, del 1942, a saggi pariniani e alfieriani compresi nel volume Carducci e altri saggi, a saggi sull’Arcadia, sul Metastasio, sul classicismo e neoclassicismo, sul rococò, in parte pubblicati in articoli, in parte inediti e tutti raccolti in questo volume e nell’altro Classicismo e Neoclassicismo nel Settecento italiano. Sarà anche chiaro che questo è uno «schema» a suo modo intermedio fra i risultati precedenti del mio lavoro e un’intera articolazione storico-critica del Settecento letterario italiano a cui attendo per la Storia letteraria dell’editore Garzanti.